Maria e il suo amore per il Napoli che l'ha aiutata a guarire

E' un amore incondizionato per una terra prima che per una squadra, Maria ama Napoli ed il Napoli più di ogni altra cosa e la sua è una storia da cui potrebbero trarre insegnamento tanti tifosi o presunti tali. Quarant'anni a seguire quella maglia, ne ha vissute di tutti i colori e a causa di una grave malattia non avrebbe più potuto seguire la sua squadra del cuore; proprio quell'amore incondizionato, però, l'ha fatta gioire e rivivere nuovamente...
Nessuno può capire cosa vuol dire essere napoletano, cosa vuol dire la mattina guardare il Vesuvio dopo una vittoria del Napoli. Sembra che ti sorrida, gioisce con il popolo, io lo guardo e sembra abbia occhi e bocca per dichiarare amore a questa terra ai suoi piedi. Io ho trent'anni di trasferte alle spalle e ho subito insulti di ogni tipo solo perchè napoletana. All'epoca il Vesuvio lo lasciavano in pace, forse non lo conoscevano neanche, non avevano avuto ancora l'onore, ma le offese erano all'ordine del giorno. Era meglio andare in trasferta all'estero che in Italia, mi hanno fatto diventare 'razzista' con i miei stessi compatrioti. Purtroppo è la vita che mi ha segnato. Spesso, quando i locali sentivano il mio accento, domandavano a me e mio marito "Ah ma siete napoletani?! Perchè siete simpatici" con tanto di stupore, come se l'appartenenza a questa terra ci identificasse nelle altre zone come persone antipatiche. 
Da quarant'anni per me l'emozione più forte resta ancora salire le scale del San Paolo, quando si inizia ad intravedere il terreno di gioco. Prima del fischio d'inizio io ho paura, appena si inizia a giocare però, non c'è timore che tenga. Resto concentrata, fisso ogni passo dei giocatori, ogni stop e ogni sviluppo d'azione. A volte vedo la gente ridere e scherzare durante la gara e in mente penso "Sono tifosa in un'altra maniera". Non che ci sia un modo giusto di essere tifosi, ma quello è il mio modo e continuerà ad esserlo fino a quando avrò la forza di seguire quei colori. Sono convinta che giocare al San Paolo con la maglia del Napoli sia la cosa più difficile per un calciatore. In questa città abbiamo talmente tanta emozione, positiva e negativa, che durante una partita la trasmettiamo a quegli undici giocatori in campo. Spesso non aiuta, ma questa è Napoli, siamo fatti così. Come se fossimo sempre più vivi di qualsiasi altra tifoseria, e io voglio essere così. Noi abbiamo la lava del Vesuvio nelle vene.
A volte penso che se ci fossero più napoletani con quella maglia addosso sarebbe un'altra cosa. Il mondo senza amore non camminerebbe e il calcio non è da meno. I calciatori possono essere bravi quanto vogliono, attaccati alla maglia ed affezionati alla squadra, ma non sono figli di questa terra. Non si può copiare il cuore di un napoletano. Anni fa mi fu diagnosticata una grave malattia. All'epoca facevo chemioterapie varie e avevo una parrucca in testa che sembrava una gatta spelacchiata. Molti, compreso il medico, mi consigliarono di evitare assolutamente di andare allo stadio per vedere il Napoli. Ma io non ce la facevo, dissi a me stessa che se fossi dovuta morire, il posto migliore sarebbe stato il San Paolo. E allora continuai a seguire quei colori, nella salute e nella malattia. Era Napoli-Juve del 2010, ed io mi trovavo sugli spalti del San Paolo, come sempre. Appena iniziò la partita segnò Chiellini e le cose si complicarono. Allora feci un patto con Dio. "Signore io ti giuro che se fai segnare il Napoli, butto via questa gatta che ho in testa davanti a tutti senza alcun timore". E così fu... Il Napoli segnò non una, ma ben tre volte, e quella partita la vincemmo 3-1. Io rimasi senza parrucca, e forse qualcuno si sarebbe sentito nudo al mio posto, ma in quel momento attorno a me io vedevo tutti miei familiari, tutti figli di questa terra che nel bene e nel male ci rende unici come solo i napoletani sanno essere. 
 
[ Leonardo Vivard ]
Twitter: @LeonardoVivard

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